Il saggio

Il Saggio di fine anno accademico

attività non essenziale

Un anno accademico e sportivo, all’interno di una scuola di danza, non può mai dirsi concluso fino a che non si paga il pegno del “saggio”. Personalmente sono sempre stata contraria all’idea del “saggio” nella connotazione usuale che se ne da all’interno delle scuole di danza. L’ho sempre visto come un sequestro di persona autorizzato dall’amore verso i figli dal lato delle scuole e come un obiettivo profondamente sbagliato da parte delle famiglie.

Da parte dei primi pur di mettere in scena tutti, ma proprio tutti e far vedere tutto, ma proprio tutto, ciò che si è fatto durante l’anno accademico si rischiano scene da film commedia all’italiana con Papà collegati alla partita tramite cuffie (va bene anche se giocano i pulcini) e Mamme che se non si appisolano sulle poltroncine è solo perchè non vogliono rischiare di perdere il momento dell’uscita della grande stella, partorita neanche un decennio prima.

Da parte dei genitori invece il vedere nel famoso “saggio” la conclusione di un percorso obbligato da interrompere quando i Tigli sono in fiore e riprendere quando in autunno iniziano a cadere le foglie dagli alberi. Come se il corpo di un atleta potesse andare in vacanza o in letargo in estate senza subirne conseguenze dal punto di vista sia del benessere, che dello studio della disciplina scelta. Ho sempre pensato che se ami fare qualcosa desideri farla tutti i giorni, a maggior ragione in estate quando hai più tempo e più energia da dedicarle.

Per questo motivo ho sempre posto regole ferree a chi decideva di partecipare all’evento finale: ho sempre desiderato farlo in Teatro per istruire gli allievi su cosa è un teatro (alcuni mettono piede in un teatro per la prima volta in queste occasioni, genitori compresi) e quali sono le sue regole. Ma anche all’aperto, in piazza o nei parchi, per dar modo di conoscere le differenze tra i due tipi di esibizione, perchè credo che una scuola di danza debba prepararti ad esibirti su tutte le tipologie di palcoscenico.

Ho sempre posizionato la data di tale evento entro la metà di Maggio, alcuni anni anche verso la fine di Aprile, sia perchè credo che sia disumano recarsi in un Teatro al chiuso con 40 gradi all’ombra in Giugno, sia perchè credo che questo evento debba essere visto come parte integrante della formazione nel “corso” dell’anno e non l’obiettivo alla “fine” dell’anno accademico.

Infine ho sempre richiesto ai miei collaboratori e agli allievi di far parte di qualcosa di più grande della semplice esibizione del loro corso. Di essere parte di una compagnia. Di raccontare una storia. Di diventare parte di un unico gruppo e lasciar perdere le suddivisioni all’interno dei corsi e delle classi. Ho sempre chiesto di approcciarsi a tale evento come ad un vero e proprio spettacolo, sia come formazione personale degli allievi, sia nel rispetto del pubblico.

Per quanto sul palco possano esserci dei bambini e dei ragazzi, per quanto possa trattarsi di allievi e non di professionisti esperti, il pubblico è sempre pubblico. Si è vero, è formato per la maggior parte da genitori, amici, famigliari che probabilmente applaudirebbero anche se il figliolo dormisse in scena per 90 minuti. Ma non tutti sono genitori di tutti. E’ a loro che va il nostro rispetto, mentre ci si esibisce per i genitori degli amici. Costretti a guardare anche noi in attesa che venga il momento per il quale sono li. E’ a loro che dobbiamo risultare interessanti cosi come un vero artista che crea una performance su un palcoscenico, e a volte riesce anche a farsi pagare per quella performance, non può esibirsi per se stesso. Deve piacere al pubblico che è li per guardarlo. Che ha scelto di dedicare un paio d’ore del suo tempo a vedere quella performance e non un’altra.

Quest’anno sono stata indecisa fino all’ultimo su cosa fare. L’anno scorso abbiamo dovuto rinunciarci senza neanche porci il dubbio. Quest’anno ho preso la decisione di far esibire coloro che per un anno intero hanno continuato a studiare e ad allenarsi in qualsiasi condizione. Dal vivo, nei parchi, online. Ho pensato che ne avessero bisogno, e ho avuto ragione. Un ballerino, un performer ha bisogno del confronto con il pubblico dal vivo. Abbiamo creato anche delle occasioni di shooting video durante l’anno si, ma non danno gli stessi risultati. Quando un performer sa che deve andare in scena la sua preparazione diventa magicamente più accurata e questo si nota ancora di più nei bambini e nei ragazzi. Anche l’allievo più disciplinato raggiunge traguardi che senza lo stimolo dell’esibizione, da solo, per se stesso e basta non riesce a raggiungere. Siamo umani. Abbiamo bisogno di condividere ciò che siamo e di rispecchiarci negli occhi degli altri per definirci.

Sia per mancanza di tempo che di risorse abbiamo dovuto accontentarci di un’esibizione intima ed essenziale. Ma credo che l’arte sia figlia del tempo in cui vive e questo era il mood che era giusto esibire quest’anno. Essenzialità.

Essere essenziali … il grande tema del lockdown… se sei essenziale vivi… se non lo sei puoi sopravvivere con grandi sacrifici, e qualche escamotage, oppure morire.  Chi decide se sei essenziale o no? Prima dell’epidemia era il libero mercato, le abitudini di vita delle persone. Dall’epidemia in avanti la politica. Per la politica oggi al governo abbiamo scoperto che sport e cultura non salvano l’uomo e per questo non sono essenziali. Ma può definirsi davvero umano chi non sa godere della bellezza dell’arte? Può vivere in salute un individuo che non si prende cura con regolarità del suo fisico e della sua psiche. Tutte le ricerche e i dati ricavati durante l’epidemia ci dicono esattamente il contrario.

Oggi ci accorgiamo di ciò che per una sportiva come me è sempre stato ovvio. Sono contenta che anche il mainstream oggi sia d’accordo con questa tesi, ma i mesi trascorsi a chiedermi come fosse possibile che persone intelligenti e piene di cultura lasciassero che ciò accadesse senza far nulla non li dimentico. Le discussioni con genitori che affermavano che gli allenamenti online non servissero a nulla e che si rifiutavano di pagare la quota concordata per quella forma di allenamento, oltretutto prevista nei nostri regolamenti all’iscrizione, non le dimenticherò mai. Ancora mi stupisco oggi di genitori che mi cercano per le future iscrizioni affermando che siamo una delle poche scuole del territorio che non si è mai fermata e che in questo abbiamo dimostrato serietà. Io personalmente non credo che si tratti di serietà, solo di buon senso.

Una volta accettato che in democrazia le regole sono da rispettare, anche se vanno contro il buon senso e la salute dei cittadini, a meno di non essere disposti alla guerra civile, abbiamo dovuto attrezzarci. Oggi saltano fuori i furbetti che non si sono mai fermati e che per tutto l’inverno di nascosto hanno continuato a fare allenamenti abusivamente. Non mi sento di giudicarli, ma non è l’esempio che ho voluto trasmettere ai nostri allievi. Le regole si rispettano, se non piacciono o scegli di diventare un rivoluzionario pronto a mettere in gioco tutto in una guerra civile oppure semplicemente cerchi di scegliere al meglio chi ti rappresenta alla prima occasione di voto. Nella vita bisogna essere coerenti. Non è democrazia se le regole valgono solo quando sono comode.

Cosa ha significato allenarsi online o all’aperto per una scuola come la nostra? Settimane di riprogrammazione e riorganizzazione. Abbiamo dovuto aiutare gli allievi ad attrezzarsi all’interno delle case con attrezzi a basso costo ma che gli permettessero di continuare ad allenarsi. Abbiamo dovuto modificare gli obiettivi delle lezioni, ponendo al centro del programma di allenamento ciò che prima eravamo costretti a trascurare per mancanza di tempo, cogliendo cosi l’occasione di tirare fuori anche qualcosa di buono da questa esperienza. Abbiamo migliorato l’allenamento della preparazione atletica e della flessibilità. Con buoni risultati da un punto di vista posturale in discipline che di per sè sono portate a enfatizzare l’utilizzo preponderante di una parte del corpo rispetto ad un’altra come ad esempio la danza aerea. Abbiamo avuto occasione di notare con maggior chiarezza quali atleti in sala usano come strategia “il copiare” gli altri, invece che allenarsi a memorizzare sequenze o contare il ritmo della musica, poichè ognuno di loro da solo in una stanza, era costretto, anche se insieme agli altri tramite video, a “guidare” i movimenti. Abbiamo dovuto imparare un nuovo modo di verbalizzare gli input da fornire agli atleti, studiare la tecnologia, il modo migliore di riprenderci e riprendere gli allievi, studiare come condividere la musica senza lo scarto temporale della trasmissione. Abbiamo dovuto imparare un nuovo modo di allenare.

Sono certa che i sacrifici di questi mesi saranno utili nel futuro, ne sto già sperimentando i benefici attraverso le lezioni ibride (online + live in sala) che a volte mi capita di dover condurre (altra nuova competenza che ho dovuto acquisire) per i motivi più svariati. Anche l’esibizione di quest’anno è stata trasmessa in live streaming per i parenti che non hanno potuto assistere dal vivo per mancanza di spazio. Certo la tecnologia può essere migliorata con alcuni investimenti per rendere queste pratiche più efficaci. Ma iniziare ad inserirla come routine nella propria vita di atleta e allenatore credo che ci apra ad un mondo di opportunità.

Nel mio cuore sono grata a chi mi ha aiutato a realizzare questo tipo di attività quest’anno e sono profondamente orgogliosa di tutti gli allievi che hanno partecipato e delle famiglie che sono state in grado di sostenerli. Anche molti di loro hanno attraversato momenti di buio, momenti in cui volevano mollare, momenti in cui si trascinavano ad allenamento sia live che online. Ma questo è ciò che accade nella quotidianità di ogni atleta a qualsiasi età. La differenza nello sport, nella vita, in qualsiasi attività però la fa chi non molla. Io sono sempre stata fermamente convinta di questo e dopo 20 anni di esperienza sul campo come istruttrice posso dire di aver raccolto sufficienti storie per affermarlo con certezza. Lo sport è passione, ma anche sacrifico. L’arte è bellezza ma anche impegno. Se non riesci a trovare dentro di te o nell’ambiente che ti circonda lo stimolo per sopportare i momenti bui e per essere costante al di la dei risultati in ciò che hai scelto di fare prima o poi mollerai.

Credo che chi sia arrivato alla fine di questo percorso quest’anno non avrà ricordi entusiasmanti, foto pazzesche da mostrare o video da pelle d’oca. Avrà acquisito però una competenza che porterà avanti per tutta la vita e che lo aiuterà in tantissime difficoltà: la resilienza.

La felicità di aver contribuito a innestare tale competenza in questo gruppo di allievi quest’anno supera il dolore della perdita di chi ha scelto di mollare una passione a causa della pandemia e delle condizioni in cui siamo stati costretti ad allenarci. Mi auguro che chi non ce l’ha fatta quest’anno possa lo stesso incontrare altre occasioni per appassionarsi ad una disciplina sportiva da portare avanti in qualsiasi avversità, perchè il mondo ha bisogno di combattenti e non di sopravvissuti.

L’Islanda è riuscita nel corso di vent’anni, attraverso il famoso modello Islanda, non solo a combattere alcool e tossicodipendenze grazie a notevoli investimenti sullo sport per tutti a qualsiasi condizione (freddo e ghiaccio compresi), ma anche a ottenere ottimi risultati nelle competizioni mondiali e di conseguenza a creare senso di appartenenza, orgoglio per la propria nazione e solidarietà tra cittadini. Io credo davvero che lo sport ci salvi come individui e ci trasformi in comunità.

Un ringraziamento sentito va ai genitori degli allievi dell’anno accademico 2020/2021, a Simone Schedan insegnante di danze urban street e a Benedetta Bolaffi insegnante di danze accademiche.

Eleonora